Alberto Scerbanenko è un gentile signore figlio di Giorgio, il famoso scrittore considerato da tutti i più importanti giallisti italiani il loro principale punto di riferimento nella scrittura. Con i suoi romanzi, Giorgio Scerbanenco, è considerato colui che meglio ha capito quello che stava accadendo nel dopoguerra italiano e ha raccontato la violenza e le tensioni che si trovavano nella parte oscura della nostra società e che stavano esplodendo negli anni Cinquanta in pieno boom economico. Nei libri di Giorgio Scerbanenco troviamo la Milano della cronaca nera di quegli anni, la Milano delle industrie e degli affari dove il denaro fa crescere i disagi e fa perdere alla città, nei momenti peggiori, la sua vera identità industriale e produttiva.
Per fare questa operazione Giorgio Scerbanenco ha utilizzato il genere noir, un genere considerato basso dalla critica tradizionale ma che, con il suo lavoro, questo scrittore ha contribuito ad accrescerne la dignità.
Nel 2019 Alberto Scerbanenko scrive il libro Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco, pubblicato da Feltrinelli (pagg. 250, 19 euro). Il libro è il risultato di una paziente ricerca che ha iniziato nel 2008 quando, dopo la morte della madre, ha potuto consultare e leggere un cospicuo archivio familiare che comprendeva migliaia di fogli manoscritti e dattiloscritti, di lettere, di riviste e di giornali.
Da questo immenso lavoro arriva alla comprensione profonda di suo padre come scrittore e come uomo e della relazione esistente tra i suoi genitori. Il risultato è un ritratto realistico e affettuoso del padre e la dichiarazione di un tenero sentimento di amore e grande rispetto verso la madre.
Mi ci sono voluti quasi quattro anni per analizzare, decifrare, collegare tutto questo materiale, e ancora non ho finito.
Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco è un libro scritto con grande rigore; dalle numerose pagine trapela l’approccio tipico di una mentalità scientifica propria di Alberto Scerbanenko. Ogni sua affermazione riguardante le persone di cui si parla, o i fatti narrati, sono precisamente documentati.
Nel libro non troviamo un’analisi dei numerosi scritti di Giorgio Scerbanenco ma quello che esce è un bellissimo racconto che è la storia documentata di un grande scrittore dalla personalità complessa e poco tradizionale per l’epoca, del suo rapporto con le donne e dell’importanza che ha avuto nella sua vita il lavoro. Ma soprattutto, io credo, che questo libro sia la storia di Alberto Scerbanenko che con coraggio, pazienza e determinazione, ha saputo trasformare un materiale vasto e disorganizzato in un bel racconto che gli ha permesso di ricostruire passo per passo la romanzesca vita personale e professionale di suo padre, anche attraverso il filtro delle loro relazioni.
Chi era Giorgio Scerbanenco?
Fisicamente era un uomo altissimo, longilineo, molto magro, con un volto triangolare, grandi occhi neri e sporgenti, uno sguardo serio e penetrante e una massa di capelli castani e ricciuti.
Emotivamente era un uomo in perenne stato di fervore creativo, che doveva manifestarsi e doveva essere fissato su carta.
Dal libro Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco veniamo a conoscenza del fatto che colui che è considerato il padre del giallo italiano, è nato in Ucraina. La famiglia Scerbanenko, infatti, benestante e colta, viene dalla città di Char’kov in Ucraina. L’Italia entra nelle loro vite perché il nonno di Alberto, professore di Greco e Latino, va a Roma per approfondire le sue conoscenze e nel 1907 conosce Leda Giulivi. Poi verranno gli anni della Prima Guerra Mondiale, della Rivoluzione Russa e della Guerra Civile e la famiglia Scerbanenko sarà tristemente coinvolta e colpita da questi devastanti eventi storici.
Tutti i documenti che appartengono al periodo ucraino della nostra famiglia sono stati dispersi nel turbinio dei vari conflitti e nell’esodo tutto andò perduto, sottratto, confiscato.
I due giovani si sposano nel 1908 nonostante le perplessità della famiglia di lei, romana da generazioni.
Dopo un primo bimbo morto troppo presto, nasce, il 28 luglio 1911, Valdimiro Valeraniovich Scerbanenko che successivamente italianizzerà il suo nome in Giorgio Scerbanenco, in ricordo del fratello morto precocemente e che non aveva mai conosciuto.
Nella sua vita mio padre non ha mai manifestato particolare sensibilità per le sue radici culturali ucraine. Credo che ciò dipendesse dalla necessità di consolidare la sua italianità, senza sfilacciamenti emotivi verso un’identità appartenente al passato, suo malgrado cancellata, il cui ricordo avrebbe potuto alimentare le sue mai sopite insicurezze e le sue angosce. Però qualcosa rimase.
Nel libro Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco leggiamo che Teresa Bandini, la madre di Alberto, è stata senza dubbio una donna speciale. È lei la donna che Giorgio Scerbanenco sposa dopo un breve corteggiamento iniziato con scambi di lettere. Le lettere che lo scrittore le manda contribuiscono a far nascere in lei un profondo sentimento d’amore che mai svanirà anche quando non sarà più corrisposto. Dalle lettere si delinea un uomo fragile che cerca e trova nella donna a cui scrive un solido punto di riferimento. Nelle lettere lui la chiama Liuba che in russo vuol dire amore e la descrive come l’unica che potrebbe salvarlo da una vita sregolata e senza limiti.
Lui le scrive di amarla perché lei rappresenta la bontà, l’onestà e l’ordine mentale, contrapposti al disordine, la cattiveria,la disonestà delle sue frequentazioni fino a quel momento.
Lei lo ama perché è disperato, intelligente, romantico, povero, perché vorrebbe morire, cancellarsi e lei è la sola che può consolarlo e dargli un po’ di felicità.
Giorgio Scerbanenco è affascinato da questa donna originale, moderna e intelligente.
Il loro amore dura qualche anno poi, come a volte succede, finisce e si trasformerà in profondo rispetto. Teresa Bandini è una donna forte che affronta da sola la nascita del figlio e la sua crescita. È una donna che, durante la guerra, farà la sua parte, aiutando ebrei e partigiani. Per questo motivo sarà decorata e riceverà un riconoscimento all’Ambasciata di Israele a Ginevra diventando uno dei Giusti tra le Nazioni.
Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco è un libro che parla di una passione talmente forte da condizionare in pieno una vita: la scrittura.
…la scrittura era il suo modo per creare la realtà così come la sentiva lui.
Dopo aver fatto in età giovanile svariati lavori, Giorgio Scerbanenco entra a collaborare con la Casa Editrice Rizzoli prima, e Mondadori poi, diventando uno scrittore a pieno titolo.
Durante la sua vita Giorgio Scerbanenco scrive sempre e di continuo e non solo gialli ma anche di altri generi. E così oggi possiamo leggere poesie, articoli di moda e costume, narrativa rosa. Testi tutti scritti da lui anche se firmati a volte con uno dei numerosi pseudonimi (pare più di 50) che utilizzava. Un lavoro immenso che testimonia, dal 1934 in poi, la creatività nel trattare i più diversi argomenti e la sua grande capacità di scrittura.
Bellissime e piene di ammirazione sono le parole che utilizza Alberto Scerbanenko perdefinire il lavoro del padre:
…un lavoro fatto di intensità ed eleganza nell’espressione e nei ritmi delle vicende, creatività inesauribile nelle trame, umanità e capacità nel trasmettere emozioni.
Un lavoro che, per la sua grande attenzione alla natura umana, facilmente permetteva l’identificazione di chi leggeva.
Grazie al suo lavoro alla Rizzoli e all’amicizia con Cesare Zavattini la sua fama valica anche i confini italiani. Lavora in continuazione consapevole del fatto che non è sufficiente solo la produzione letteraria, è importantissimo anche saper tenere buone relazioni sociali.
Dal libro Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco apprendiamo che gli eventi storici del Novecento sono entrati prepotentemente nella vita di Giorgio Scerbanenco. Come tanti altri scrittori del tempo ha avuto a che fare con il Partito Fascista e, nonostante non si fosse mai interessato alla politica, ha dovuto prendere la tessera del partito a cui poi dimostrerà la sua decisa ostilità. È stato uno dei tanti uomini che, dopo l’8 settembre, sono stati costretti a scappare per mantenere la propria libertà intellettuale e non essere costretto ad assoggettare i propri scritti alle linee guida del partito. Arriva con difficoltà in Svizzera e qui inizia un periodo di solitudine e dolore che calmerà solo con la scrittura.
Giorgio Scerbanenco e le donne.
Nel 1939, un mese prima della nascita del figlio Alberto, Giorgio Scerbanenco lascia la moglie perché era talmente innamorato di un’altra donna che non riusciva (queste sono le sue parole) a non vivere questa storia. Si allontana dalla famiglia dichiarando di voler mantenere comunque un forte legame d’affetto con la moglie e di voler essere presente nell’educazione del figlio.
Il libro Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco ci racconta che, dopo Teresa Bandini, altre donne arrivarono nella vita dello scrittore. Mutti Maglione, la donna per la quale lascia la famiglia, Maria Beretta, che regala a Giorgio un periodo di borghese tranquillità. E l’ultima compagna, Nunzia Monanni, giovane donna che gli darà due figlie, Cecilia e Germana. Con loro trasferisce la sua residenza a Lignano Sabbiadoro. La predisposizione ad avere successo con le donne probabilmente è stata alimentata dalla sua emotività, dalla sensibilità che gli dava la scrittura, dal suo gusto estetico e dalla sua eleganza. Giorgio Scerbanenco infatti vestiva solo abiti di sartoria e sapeva abbinare con gran personalità colori pastello in modo mai banale. In più aveva il piccolo vezzo di portare due orologi, uno su ogni polso.
Conclusione.
Tanto lavoro sempre alla ricerca di un riscontro ha dato i suoi frutti. Scrivendo di suo padre e di sua madre, Alberto Scerbanenko commenta:
Sino a una ventina di anni fa, avevo idee piuttosto chiare su dove fosse la ragione e il torto in questa vicenda. Ora provo una grande tristezza per la sofferenza che entrambi hanno patito, in una delle situazioni più difficili che possano presentarsi nella vita di due esseri umani. Ma, certamente, ho una tenerezza particolare per mia madre, che è stata abbandonata in un momento così duro della vita di una donna e che ha dovuto affrontare da sola la separazione, il parto e l’incertezza di un futuro che, contrariamente a quello che le era stato suggerito da mio padre, non poteva certo vivere “serena e come se non fosse successo nulla”.
Crescere e conoscere aiuta a capire. Alberto Scerbanenko nelle ultime pagine del libro dichiara di vedere sempre più in suo padre un uomo inquieto e incapace di raggiungere la felicità. Ma comunque, aggiungo io, un grande genio letterario.
Come ho affermato all’inizio di questo breve testo, Alberto Scerbanenko è un uomo molto gentile. Purtroppo non lo conosco personalmente, l’ho contattato tramite email per chiedergli di rispondere a tre domande per arricchire e approfondire quanto fino ad ora è stato detto.
Prima domanda: Giancarlo De Cataldo apre un recente articolo, pubblicato da un famoso quotidiano italiano, intitolato “E poi venne il noir”, con le seguenti parole di Giorgio Scerbanenco: “A me piace scrivere,ho scritto dappertutto e nelle condizioni meno confortevoli. Non mi occorre né solitudine né silenzio né scrivanie speciali. L’unica cosa di cui ho bisogno è la macchina per scrivere, una qualsiasi, anche la più scassata”.
Potrebbe descrivere, dalla sua condizione privilegiata di figlio, il rapporto di Giorgio Scerbanenco con la scrittura?
A pagina 230 del libro descrivo la grande passione di mio padre per la scrittura. Riporto qui sotto le mie parole per condividerle con voi.
Quella di scrivere era la passione più forte: era parte della sua natura, era il suo modo di creare la realtà, così come la sentiva lui.
Scrivere gli dava da vivere, ma non era solo il suo lavoro: era quello che avrebbe fatto comunque anche se non lo avessero pagato, sopravvivendo in qualche modo, come era successo all’inizio della sua carriera.
Scriveva in ogni possibile momento: si metteva, ogni giorno, dietro alla macchina dascrivere con i ritmi di un operaio della Breda – diceva lui – quattro ore al mattino e quattro ore il pomeriggio e, se era in giro, annotava quello che gli passava per la testa in qualsiasi momento della giornata. Nella realtà i suoi ritmi di lavoro non erano scanditi in modo così militare. Lui scriveva e viveva anche di notte. Il suo turno del mattino cominciava quando l’operaio della Breda andava in pausa ed il turno del pomeriggio poteva sfilacciarsi, a seconda delle circostanze, sino a notte inoltrata.
Poteva scrivere ovunque con la stessa fluida continuità con cui l’acqua esce da un rubinetto: a casa, al lavoro, al bar, nel locale di uno stabilimento balneare a Lignano Sabbiadoro in mezzo alla gente che giocava a calcetto e che ascoltava il jukebox con il volume a tutto gas. Era in uno stato di “prontezza”creatrice continuo ed alimentato senza soluzione di continuità dalla sua estrema sensibilità. “Ispirazione” implica una fase di preparazione, di pausa prima della scrittura. Lui non ne sentiva il bisogno.
Seconda domanda: Pensa che la condizione di apolide, di cui ha ampiamente parlato nel suo libro, sia legata ad un lungo percorso di ricerca di identità che lo ha portato anche nel lavoro all’utilizzo di così tanti pseudonimi?
Non penso proprio che la condizione di “apolide”, che tra l’altro si è risolta quando prese la cittadinanza italiana nel 1935, abbia mai condizionato la sua scelta di usare degli pseudonimi. Inoltre, lui ha sempre avuto fortissimo il sentimento della sua identità italiana, come traspare da tutta la sua produzione letteraria.
In questi estratti dal mio libro chiarisco la questione:
Su un totale, per il momento, di 4016 scritti pubblicati, 2667, e cioè il 66% sono apparsi sotto uno pseudonimo. Ogni tre scritti pubblicati, uno usciva con il suo nome e due sotto un alias. …Chiarisco: l’82% degli scritti con pseudonimo riguarda la categoria Prose, e cioè, come la definisce il Professor Pirani, il suo bibliografo, “scritti di riflessione, di confessione, di discussione, di morale a tema, spesso con risvolti narrativi”, che furono al 100% pubblicate utilizzando uno pseudonimo…La percentuale di pubblicazioni con pseudonimi scende al 28 % (26 su 92) per i romanzi e al 26% per i racconti (360 su 1380). In pratica un romanzo o un racconto su tre erano pubblicati sotto pseudonimo.
Appaiono ora più chiari i criteri generali che Giorgio Scerbanenco seguiva di solito per decidere quando utilizzare degli pseudonimi:
- usava il suo nome per tutti gli scritti che giudicava all’altezza della sua produzione qualitativa e che non erano in conflitto con la sua situazione professionale.
- usava uno pseudonimo per gli scritti che non giudicava consoni alla sua valutazione come scrittore, che pubblicava con editori diversi da quelli con cui era sotto contratto o quando la sua produzione ufficiale era talmente elevata che rischiava di “inflazionare”.
Terza domanda: Come ultima domanda ho chiesto ad Alberto Scerbanenko, sperando di non invadere troppo la sfera privata, di condividere con me e con tutti i lettori di questo sito alcuni ricordi vissuti con il padre.
Rispondo a questa domanda citando alcuni brani del mio libro.
Frequentavo l’università e avevo circa vent’anni quando mio padre comprò dal suo autista una vecchia Fiat 1400 e me la regalò. Quella macchina era ormai una veneranda signora con più di nove anni di vita, ma li portava piuttosto bene ed io ne ero molto orgoglioso.
Fu con quel prezioso residuato che lo portai diverse volte a Parigi dove doveva presenziare alle sfilate di moda in qualità di Direttore di “Bella” e dove aveva anche altri contatti di lavoro (editori, critici, giornalisti) in relazione con la sua attività di scrittore. …Mi ricordo particolarmente un ricevimento a casa di Helena Rubinstein in un sontuoso attico di uno dei pochi immobili sull’Ile StLouis, circondato dalla Senna e con una incredibile vista su Parigi. C’era un po’ di tutto: grandi sarti, modelle, attori, scrittori. Personaggi che appartenevano ad un mondo ben diverso da quello che io frequentavo abitualmente a Porta Venezia a Milano. Ne ero impressionato, cercavo di darmi un contegno e credo di non essermela cavata troppo male.
Scerbanenco lavorava in questo ambiente lussuoso e modaiolo. Io gli facevo da figliolo,autista e guardia del corpo, ma in realtà ritenevo, forse a torto, che quello fosse un mondo abbastanza artefatto il cui principale lato positivo, almeno per me, era quello di essere popolato da belle donne sorridenti.
Ricordo anche il periodo in cui mio padre stava rompendo la relazione con la sua compagna per allacciarne una nuova con una giovane giornalista.
Questo periodo di transizione durò qualche mese, durante i quali lui viveva ancora con Maria e vedeva regolarmente Nunzia, anche al di fuori degli orari di lavoro. Poi, all’inizio del 1960, mio padre lasciò definitivamente l’appartamento divia Durini e, per qualche mese, alloggiò prima a l’Hotel de la Ville, a Monza,vicino all’ingresso della Villa Reale, e poi in un residence di cui non ricordo il nome, che si trovava in Via Lazzaretto, tanto per cambiare a Porta Venezia, e che stava dove ora c’è l’Hotel Ibis.
In quei momenti era spesso solo e mi chiamava per uscire a cena, sfogarsi, parlarmi dei suoi problemi. A volte mi chiedeva se mi avrebbe fatto piacere portare anche alcuni miei amici e così facemmo. Io ero molto orgoglioso di fare conoscere mio padre ai miei amici. Andavamo a cena assieme e poi al cinema.
Avevo poco più di vent’anni e avevo appena iniziato a frequentare l’Università. Ero perplesso nel vedere mio padre, l’uomo cui volevo bene e che ammiravo, lamentarsi senza riserve sulle ingiustizie che, nella sua percezione delle cose, la vita gli aveva riservato. Non sapevo cosa dire, e infatti nella maggior parte dei casi lo ascoltavo senza commentare o limitandomi a rincuorarlo e dirgli che prima o poi tutto sarebbe tornato alla normalità.
E infine c’è il ricordo di un nostro incontro verso la fine della sua vita.
Una delle ultime volte che lo vidi fu a Milano, nel dicembre del 1968 quando, con Nunzia e mia moglie, cenammo assieme, qualche giorno prima di Natale, al ristorante Tulipan di piazza Oberdan.
Crescendo vedevo il padre ma, anche e sempre più, l’uomo. Lo ammiravo per le sue qualità, per l’intelligenza e per la logica prussiana e senza concessioni, unita ad una grande empatia per gli altri. Provavo tenerezza e perplessità per la sua incapacità di rilassarsi e di essere felice.
Allora ignoravo ancora che tutti questi aspetti possono coesistere, senza contraddirsi, in una personalità ricca a profonda.
Ringrazio Alberto Scerbanenko per la disponibilità e la gentilezza con cui si è prestato a questa collaborazione. Aggiungo anche che Alberto è un raffinato scrittore. Di lui, oltre a Le cinque vite di Giorgio Scerbanenco ho letto anche Gli amici di Romeo, un racconto che porta nell’anima di una delle isole più belle d’Italia: l’isola di Panarea.
Alla prossima lettura.
Paola